29 luglio 2008

Paura

Tra le tante paure del malato grave in fase cronica e irreversibile, ci può essere talvolta quella, più o meno reale, che il familiare, preso da raptus, decida di liberarlo per sempre dalle sue sofferenze. Molto verosimilmente si può trattare di una paura indotta dai fatti di cronaca, oppure dalla condizione di estrema fragilità del malato, che sente continuamente al suo fianco la morte che, come uno squalo, se ne sta lì pronta ad ingoiarlo in ogni momento: questa paura, allora, può prendere arbitrariamente la forma di chi gli sta più vicino. Il volontario si può trovare a ricevere la confidenza di questo timore ma, contemporaneamente, la raccomandazione di mantenere il segreto. Quando ero all’inizio del servizio il mio gruppo con la referente si riuniva, una volta al mese, da una psicologa che offriva la sua competenza come volontaria alla associazione. Si trattava di incontri molto utili dai quali ho imparato molto, soprattutto a delineare meglio il mio ruolo nel contesto della famiglia del malato. Una istruzione che ho ricevuto anche recentemente, e alla quale non do mai abbastanza ascolto, è quella che nella società ognuno deve fare la propria parte con umiltà e basta. Durante uno di quei primi incontri, un volontario manifestava la sua preoccupazione per quanto aveva udito dalla persona da cui andava. Non ricordo esattamente le parole, ma la sostanza della risposta della psicologa era di portare sempre il malato sul terreno della razionalità e delle proposte concrete e di chiedergli esattamente che cosa si aspettava che lui facesse. Ho fatto tesoro di questo messaggio e quando mi sono trovata in situazioni simili l’ho sempre applicato. Cristina

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