31 agosto 2008

Meglio farsi straniero

"Meglio farsi straniero, che accogliere uno straniero" (E. Canetti). Un tempo, come molti europei occidentali, pensavo allo straniero come ad "un altro" che dovesse adattarsi alle nostre regole, o stare fuori. Più recentemente, ho cominciato a considerare una terza via, quella, appunto, degli ebrei: la "stranierità" come condizione umana, spesso non scelta, che accompagna tutta la vita, nella perenne ricerca delle proprie radici. E' una dimensione inquietante e destabilizzante, non semplice, sia quando l'abbiamo di fronte, sia quando ci riguarda; che, però, dilata esperienza e conoscenza, perché, se si accetta questa condizione, niente è dato una volta per tutte. Il difficile è che si deve continuamente abbandonare la casa, la strada già tracciata per noi, o che avevamo programmato, quella che ci dava sicurezza, e intraprendere la via della precarietà, del mistero, accogliendo anche quel lato oscuro, che ci abita silenziosamente, perché la "stranierità" è soprattutto dentro di noi. La malattia e la vecchiaia fanno spesso dire agli altri: "Non lo riconosco più" oppure a noi: "Non mi riconosco". Ma quando siamo più veri? Quando abitiamo la nostra terra, la casa paterna, nel lavoro di sempre, quando pensiamo che non potrà mai capitarci nulla di male, o nell'esilio di una situazione nuova e difficile? Ci sono persone con cui ho lavorato per anni, senza conoscerle; in un momento di difficoltà dell'azienda, ci siamo dispersi in cerca di nuove occupazioni, ma sono nate amicizie profonde tra di noi, perché in quel momento eravamo noi stessi, pellegrini e stranieri in casa nostra, senza un lavoro, con un futuro incerto, senza voglia alcuna di nasconderlo. Cristina

1 commento:

Gianpietro ha detto...

Einstein, alla domanda del funzionario di dogana: "Razza?", rispose "Umana".
Eppure l'altro, che sia straniero o che semplicemente si esprima in un dialetto differente, è spesso valvola di scarico delle nostre angosce, sfogo alle paure (talvolta motivate) che i media si ostinano ad imporre alle nostre agende. Ma la "stranierità", per usare il tuo neologismo, riguarda soprattutto i mutamenti che ci coinvolgono direttamente e che, anche ammesso che sappiamo riconoscerli, raramente riusciamo a spiegare. A me capita, con sempre maggiore frequenza, di percepire una marcata dissociazione tra l'aspetto corporeo e le sue potenzialità, la competenza mentale e la percezione che ho di me stesso. Quando questi tre elementi confliggono, ed accade sempre più spesso, entro in una crisi profonda e anch'io dico: "Non mi riconosco". In quei momenti penso solo al suicidio. Gianpietro