9 dicembre 2008

OSCAR e l'accoglienza

(pag. 61) … già che c’erano (i genitori) non avevano che da sostituirmi con un figlioletto nuovo di zecca (a proposito del cambio di un pupazzo malridotto).
(pag. 71) La mia malattia fa parte di me. Non devono (i genitori) comportarsi in modo diverso perché sono malato, o possono amare solo un figlio in buona salute?

Non esiste un unico modo di vivere la genitorialità. Essere genitori è qualcosa che va oltre le dimensioni del partorire e del “fare”. Appartiene alla pura dimensione umana del bisogno dell’essere per “essere felici”. Padri e madri non sono solo produttori di nuove vite, ma condizionatori di altri esseri umani. Allora la genitorialità è dimensione più complessa ed allargata e va intesa come presa in carico di altre debolezze; non solo delle nostre, perché, comunque, anche quelle ci riguardano. Presuppone il passaggio dal preoccuparci di nostro figlio all’occuparci del suo mondo e del suo benessere. Presuppone di trasformare il concetto di “appartenenza” ad una famiglia con quello di “sentirsi parte” di essa; dove il senso di proprietà lascia il posto alla pienezza del poter contare nella condivisione dell’affetto, dinamica che, in genere, nasce solo nei percorsi di accoglienza. E in questo caso l’accoglienza non è riferita a elementi esterni alla nostra famiglia. Spesso i nostri figli sono “nostri” senza essere da noi accolti. Non accogliamo le loro diversità, non accogliamo i loro punti di vista, che generano bisogni così distanti dai nostri, non accogliamo soprattutto ciò che crediamo siano limiti, difetti, fragilità, malattie. Per definizione accolgo un ospite per farlo stare bene, cerco perciò di mettermi in comunicazione con lui, per capire come per fami capire, per farlo stare meglio come per stare meglio. Non accolgo un figlio con lo stesso spirito. L’idea che provenga da me genera un diritto di proprietà divina che sancisce il nostro legame escludendo l’accoglienza. L’accoglienza è riservata agli estranei. Eppure i nostri figli ci sono estranei, ci dovrebbero essere estranei per poterli amare di più. La loro estraneità si acclama soprattutto durante l’adolescenza, ma oggi, sempre più spesso, anche la gestione di semplici regole educative nell’infanzia porta alla rivelazione di un’identità sconosciuta a noi genitori. Pensiamo che debbano ubbidirci per diritto divino, che la nostra volontà di condizionamento passi attraverso l’atto generativo e la gestazione, o attraverso un atto di tribunale. L’accoglienza diventa perciò determinante quando da proprietari dei nostri figli (mio figlio/a) diventiamo genitori dei nostri ragazzi. Il limite fisico causato da una malattia, le difficoltà nell’educare un bambino difficile, gli abusi e le sregolatezze a cui si sottopongono, ci schiaffeggiano pesantemente, ricordandoci non solo che questi ragazzi non ci piacciono, ma che proprio così mio figlio non lo volevo e soprattutto non accetto il cambiamento che in lui è avvenuto al di fuori della mia volontà e del mio controllo. Possiamo allora difenderci e chiuderci all’interno nel nostro bisogno egoistico di sicurezza, oppure possiamo divenire consapevoli di essere stati lo strumento biologico per generare una vita, ma che l’amore, l’affetto, insomma l’essere genitore, passa soprattutto attraverso la conoscenza del suo mondo e di ciò che mi spaventa perché sento appartiene a lui ed a lei, ma non a me. Anche perché le difficoltà manifestate, il problema, la malattia, non riguardano solo me, ma riguardano soprattutto la sua vita, e conseguentemente l’unico modo per farlo stare bene è accoglierla quella vita, con tutte le sue interazioni e le sue contraddizioni, comunicando, condizionando e facendomi condizionare da esse, senza la pretesa di “sostituirlo con uno nuovo di zecca”. Debbo accoglierlo. Per spirito di beneficenza? Per immolarmi su un altare di fatiche pensando ad un premio ultraterreno? Per puro egoismo affettivo? No, perché lui/lei si aspetta che il nostro essere genitori prescinda dai gradi misurati con il termometro. Gianpietro

3 commenti:

Cristina ha detto...

Ho rivisto, recentemente, un film di Ferzan Ozpetek “Saturno contro”, dove una moglie cerca di convincere il marito ad accettare il figlio omosessuale. L’amico del figlio la riprende e dice che è appunto questo verbo”accettare” che non va bene: quello corretto è “condividere”. Anche per me, quello che non è andato bene, nel rapporto con i miei genitori, non è stato tanto il conflitto, che è a volte addirittura necessario per la crescita e lo sviluppo della nostra personalità, ma il fatto che, alla fine, hanno sempre finito solo per “accettare” e basta quello che a loro non andava bene, ma non hanno mai condiviso veramente quello che ero e che volevo fare. Anche per Oscar penso sia la stessa cosa: i genitori non riescono a condividere con il figlio quello che gli sta succedendo. Cristina

Gianpietro ha detto...

Non ho visto il film di cui parla Cristina, ma concordo con lei sull'inadeguatezza del verbo "accettare" (che nel post non ho mai usato). Capisco che potrebbe sembrare un volere spaccare il capello in quattro, ma anche il termine "condivisione" non credo riassuma la totalità dei significati che nel post assegno ad "accoglienza". Cito, infatti, la "condivisione" unicamente in relazione agli affetti, visti come un bene in "sharing". Diversa è l'accoglienza che non presuppone l'esistenza di qualcosa da condividere e nemmeno da accettare, perchè è al di sopra sia dell'appartenenza che del giudizio. Credo che OSCAR volesse essere accolto dai suoi genitori indipendentemente dal mutare della sua condizione, senza tuttavia pretendere che dividessero con lui il peso della malattia. Gianpietro

Cristina ha detto...

La tua ulteriore precisazione è senz'altro corretta, ma temo che il mio commento sia stato letto come una contrapposizione al tuo post. E' invece una riflessione che la lettura del libro mi ha ispirato su questo argomento: un richiamo alla mia vita personale, che forse può non avere nessuna relazione con la situazione del personaggio del libro, ma è la lettura che ho fatto io, alla luce della mia esperienza. Ci sono delle assonanze con le parole, che vanno un po' al di là del significato letterale. Penso però di aver capito abbastanza bene anche il tuo punto di vista. Cristina