10 dicembre 2009

Quale verità?

Anni fa, in occasione di un incontro con un medico palliativista, che seguiva la formazione dei volontari, dedicati all’assistenza degli ammalati in fase cronica e irreversibile, a proposito di una sua affermazione sulla opportunità, da parte del medico, di dire la verità al malato, gli venne chiesto come doveva essere annunciata una notizia dolorosa e, soprattutto, fino a che punto doveva essere la verità. Rispose che la verità doveva essere quella che l’altro era in grado di sopportare. Verità, dunque, non fondata su un principio assunto (il nostro) e unico (scientifico), ma verità relazionale, rapportata ad un contesto più ampio della realtà, che è quello della dimensione psichica e spirituale del malato. Questo non significa certamente dire all’altro una verità non autentica, ma una verità che tenga conto dell’altro e non solo di noi stessi o di un ambito specifico, come sarebbe quello del solo quadro clinico. Questo concetto più ampio della verità relazionale mi torna spesso in mente nel rapporto con la persona da cui vado per il servizio EmmauS. Le indicazioni ricevute all’inizio di non interferire mai in una situazione familiare spesso complessa, di cui non disponiamo adeguate informazioni, non sono più sufficienti a supportare una relazione che dura da dieci anni. Il rapporto che ho adesso riflette pertanto la tensione tra un necessario distacco da una situazione che mi coinvolge limitatamente al tempo esiguo che le dedico ed un coinvolgimento emotivo e affettivo, che è pur necessario per mantenere viva una relazione, affinché questa cresca e sia produttiva per entrambi. Cristina

9 commenti:

Gianpietro ha detto...

No, cara Cristina, non condivido le tue affermazioni. Una volta, si, le ho anche applicate. Ho deciso quale fosse “la verità che l’altro è in grado di sopportare” arrogandomi il diritto di stabilire la “dimensione psichica e spirituale dell’altro”. L’ho fatto scientemente convinto di operare nella giusta direzione, trovandomi accusato, ad anni, molti anni, di distanza, di avere privato una persona del diritto a gestire compiutamente ed autonomamente la sua esperienza di vita. Se Dio, o chi per lui, pone un soggetto di fronte ad una sofferenza, ad una situazione per quanto dolorosa essa sia, chi siamo noi per addolcire, allontanare, o perfino negare quella opportunità? Forse ad avere bisogno di cure palliative siamo proprio noi allorquando le vogliamo somministrare agli altri. Gianpietro

Cristina ha detto...

Penso che ogni affermazione abbia bisogno di essere contestualizzata. Nel caso che ho citato, era riferita ad un medico che deve dire ad un paziente che ha un'aspettativa di vita di tre mesi, ad esempio. Penso sia corretto da parte del medico cercare di conoscere bene chi ha davanti: ci sono persone e ne ho conosciuto che non potrebbero mai sopportare una verità così dolorosa e in un modo tanto diretto. Così noi quando ci relazioniamo con gli altri non dovremmo tenere conto solo di quello che è esatto, ma della persona che abbiamo di fronte. Quello però di stabilire quello che è il bene dell'altro questo, sono d'accordo con te, non va mai fatto, ma non capisco molto la situazione nella quale ti sei trovato. Proprio in questi giorni, riflettevo con un amico sul concetto di "non nocuità" che deve stare alla base di ogni relazione, ancora prima di quello di fare del bene, e lo trovo molto interessante proprio perché a volte si può nuocere agli altri per troppo zelo. Ma il concetto di "verità relazionale" di cui ho parlato non è in contraddizione con questo di "non nocuità", per cui c'è già abbastanza male nel mondo senza che noi ne aggiungiamo dell'altro più o meno consapevolmente. Naturalmente, io sintetizzo sempre concetti importanti che avrebbero bisogno di più spazio per essere argomentati e questo è il limite di un post.

Gianpietro ha detto...

Il rischio della “contestualizzazione” è di adattare, manipolandola se occorre, la situazione contingente alle proprie convinzioni. Come puoi affermare, tu, o il medico del caso, che la persona che hai davanti “non potrebbe mai sopportare” il fatto che è destinata a morire come chiunque altro ed in un momento qualunque come tutti noi, ma con la fortuna, sapendolo in anticipo di potersi, se vuole, preparare nel modo che ritiene più opportuno? Perché pensi sia meglio per quella persona (o per la sua anima) tenergli nascosta (addolcire la pillola, rinviare la decisione, scegli tu la forma) una verità tanto ovvia e che, magari, era proprio l’ultima (e forse l’unica) esperienza che doveva compiere per la propria crescita spirituale? Perché mai privarla di una sofferenza se da quella avrebbe potuto nascere una forza nuova e risanatrice? Mantenere quella persona nell’ignoranza, nella falsa sicurezza che il tempo non sta per finire, farla giungere, intontita di medicinali, a passare il guado nella più completa inconsapevolezza di quel passo gioverà alla sua anima, o servirà ad acquietare la nostra? La mia situazione? Semplice: ma non la scrivo qui, te la espongo per e-mail che avrai la bontà di cancellare appena letta. Gianpietro

Cristina ha detto...

Io penso che ogni situazione richieda comunque sempre un discernimento e un rischio da affrontare e che non si possa giudicare sulla base delle conseguenze, anche se in futuro bisognerà comunque tenerne conto.
Prendiamo un caso diverso da quelli citati.
Metti il caso che io abbia come vicina di casa una donna che subisce violenze dal marito. Ci penso molto prima di interferire, valuto bene il contesto familiare e tutto il resto e alla fine decido di parlare alla donna e di convincerla a denunciare il marito. Lei va alla polizia, ma non le credono, hanno bisogno di prove e di testimoni; nel frattempo il marito viene a sapere che la moglie lo ha denunciato e l’ammazza. Posso portare il dolore tutta la vita per questa vicenda, ma cosa ne deduco? Che la prossima volta mi faccio gli affari miei e guardo da un’altra parte quando passo accanto all’abitazione della vicina o metto i tappi nelle orecchie per non sentire le sue urla mentre il marito la picchia?
lasciando a lei di maturare la scelta se continuare così tutta la vita?

Gianpietro ha detto...

Mi stai proponendo un gioco che non avrà fine, né vedrà un vincitore. Ogni situazione richiede che venga affrontata con discernimento e questo mi sembra innegabile (soddisfatti i bisogni primari la violenza deve cedere il passo alla ragione). Ovviamente, nel caso che citi, il tuo senso di colpa andrebbe rimosso così come quello del medico che vede il paziente gettarsi dalla finestra una volta informato che gli restano pochi mesi di vita, o del paziente stesso che in un impeto di sconforto afferra un bisturi e taglia la gola al medico che gli ha dato la notizia. Tu hai spostato il problema dall’etica al rispetto delle leggi. Corretto è suggerire alla donna che esistono leggi a tutela della sua integrità fisica (a meno di non essere in un paese islamico), ma aggiungerei che saresti da elogiare se fossi tu (nelle vesti di vicina) a denunciare i maltrattamenti dei quali sei testimone (ne diverresti corresponsabile non facendolo – il riferimento a Pio XII è puramente casuale). Le conseguenze dipendono da mille circostanze delle quali non sei né padrona né vittima. La mia intenzione era di focalizzare un punto ben preciso (ampliandolo si rischia di perderne il senso). Nessuno dovrebbe delegare agli altri la gestione della propria esistenza e chi mi priva di una informazione (indipendentemente dalla buona fede), mi nega una possibilità. Sulle forme e sui modi possiamo discuterne, ma sulla sostanza direi che resto della mia opinione. Gianpietro

Cristina ha detto...

In una discussione, non si tratta di trovare un vincitore, ma che cosa dell'esperienza dell'altro può aggiungere qualcosa alla mia. Se tu hai delle esperienze che ti hanno portato a fare delle considerazioni diverse benvengano, ci mancherebbe altro. Quello che non mi trova molto d'accordo è il criterio personale assunto come unico e assoluto per tutte le occasioni. Ma anche questo dipende dalla diversa personalità. Io non credo potrei fare affermazioni come quella che citi, che non bisogna mai privare nessuno di un'informazione. E' proprio il tipo di atteggiamento contrario al concetto di "verità relazionale" di cui parlavo io, secondo il quale ogni verità non può essere solo soggettiva, ma anche oggettiva. Ma ho solo cercato di spiegare, e probabilmente l'ho fatto in maniera confusa, una mia riflessione, lungi da me l'idea di convincere qualcuno o di voler vincere una disputa.

Gianpietro ha detto...

Sei tu che hai lanciato la sfida proponendo un caso diverso e concludendolo con delle domande. Non è mia intenzione aprire una disputa (a che scopo poi?) ed infatti non ho opposto al tuo esempio altri, che pure sarebbe facile descrivere. E’ vero, la mia affermazione ( … non delegare … non privare …) è draconiana e difficile da applicare in ogni situazione. Considerala un obiettivo che mi sono posto, stante le esperienze avute, ma che, nonostante quelle, faccio molta fatica ad applicare. Ti chiedo invece di aiutarmi a capire il concetto di “verità relazionale” che nel post associ “al contesto” ed alla “dimensione psichica e spirituale del malato”, mentre in quest’ultimo commento la abbini alla “oggettività” in opposizione alla “soggettività”. Mi sbaglierò, certamente, ma dire ad uno che: “allo stato delle conoscenze mediche le restano tre mesi di vita”, mi sembrerebbe molto più “oggettivo” che dirgli: “oggi non ha una bella cera, veda di tirarsi un po’ su di morale”. Non arrabbiarti con me per le parole che uso; tu, almeno, mi offri una occasione di confronto. Gianpietro

Cristina ha detto...

Allora vediamo di fare un esempio. Come medico appartengo alla scuola di pensiero che al malato sia molto meglio dire la verità sulle sue condizioni, in modo da poter ricevere piena collaborazione e anche prepararlo a questa fase in modo adeguato: succede abbastanza spesso che malati ricoverati all’hospice vogliano continuare a fare la chemioterapia, che ad un certo punto non serve più a nulla, ma provoca solo disturbi che potrebbero essere evitati. Quindi questa informazione esatta è necessaria. Entra nel mio studio il malato, molto anziano, depresso, impaurito con i figli che si mettono in piedi dietro di lui e fanno grandi gesti al medico per dirgli che non gli deve dire la verità. Io medico che non conosco bene il malato, nonostante le mie idee, che l’esperienza ha rivelato anche giuste, tengo conto della situazione di questa persona che ho davanti, della volontà dei familiari, anche se non la condivido e non dico certo al malato che avrà una lunga vita felice, ma gli posso dire che la situazione è seria, ma che insieme troveremo il modo di affrontarla e di stare sereno perché lo seguirò in questa fase per tutto il corso della malattia.
La verità soggettiva, in questo caso, è la mia, cioè che sia sempre meglio dare l’informazione precisa al malato, quella oggettiva è una verità che comprende la mia, non la nega, ma tiene conto di chi ho di fronte.
Anche Dietrich Bonhoeffer ha scritto un saggio sulla verità e fa degli esempi, che sono molto chiari. Ma qui sarebbe davvero troppo lungo parlarne.

Cristina ha detto...

Aggiungo un piccolo, e persino banale, esempio che riguarda il rapporto con la persona che assisto per il servizio EmmauS. C’è una verità a cui lei è particolarmente affezionata: che si è ammalata in modo così grave, perché tanti anni fa, mentre il marito, già sposato, studiava per laurearsi, lei si è sobbarcata il peso della famiglia e dei figli e per questo adesso il marito la deve servire, perché ne ha il dovere, per tutto quello che lei ha fatto un tempo. Per anni le ho sempre detto che quello che diceva era una fesseria (con altre parole però) e che la malattia di una persona è importante, ma lo è anche la felicità dei familiari. Mi ha sempre detto che non si sentiva capita: ma io insistevo, perché quello che dicevo era per me la verità, ma era la mia verità, non la sua. Questo problema non lo avrei nemmeno incontrato, se mi fossi limitata ad ascoltare e basta, come spesso ci è stato detto di fare: ma in un rapporto di assistenza così lungo che dura da dieci anni, la relazione deve per forza evolversi e incontrare anche questi piccoli conflitti, l’importante, a mio avviso, è cercare sempre di risolverli con serenità e pacatezza.